Il Washington Post, il giornale che con il Watergate ha fatto sognare generazioni di giornalisti, è oggi di proprietà di Jeff Bezos, miliardario a capo fra le altre cose di Amazon, piattaforma commerciale che fa sognare in tutto altro modo. Per innamorarsi del Post quando eravamo ancora in erba, a occhi non aperti ma spalancati, ci era bastato andare al cinema e vedere e rivedere il film del 1976 di Alan Pakula, “Tutti gli uomini del presidente”, e non più dimenticare quale è – o dovrebbe essere – il vero lavoro di un giornalista. Poi nel 2017 (ormai portavamo anche la cravatta), Steven Spielberg ci ha rispedito al cinema a vedere “The Post”. Altro titolo che appartiene al cuore di chi fa il nostro lavoro. Temi? Democrazia, libertà di stampa e potere ai tempi di Richard Nixon. Il film usciva nella prima presidenza di Donald Trump. Non per caso.

Era il Washington Post, bellezza. Oggi, Bezos si è invece inginocchiato alla vigilia delle elezioni a Trump, impedendo al suo giornale di schierarsi – secondo tradizione – dalla parte dei Democratici. E ha ordinato al capo delle pagine delle opinioni (che si è dimesso) di pubblicare esclusivamente editoriali che parlino di “libertà personali” e “libero mercato”. Al resto, sostiene, ci pensa già Internet. Sul loro sito, andate a contare proteste dei lettori e disdette di abbonamento.
Il diktat di Bezos non è soltanto un inchino al nuovo padrone della Casa Bianca e probabilmente la fine del mito del Washington Post, ma un allineamento al “free speech” sostenuto da Elon Musk. No, mica il “free speech movement” di Berkeley del 1964, dato che stiamo rinvangando un po’ di passato. Ma quella “libertà di parola” intesa dal patron di Tesla come una clava per abbattere chi non è d’accordo con lui e la new wawe trumpiana. Libertà senza vincoli, eccetto quelli dei suoi algoritmi.

È come se Musk guidasse per proprietà transitiva anche il Washington Post. Del resto, Bezos non può più fare a meno di lui, oltre che di Trump, per proseguire il suo business con altri mezzi. Amazon potrebbe essere d’ora in poi al riparo da nuove indagini dell’antitrust Usa. Blue Origin, la sua società aerospaziale, potrebbe non essere esclusa del tutto dalle commesse pubbliche della Nasa, che sono in mano a Space X di Musk. Ipotesi, perché quando si è ricattabili le cose non sono sempre come appaiono.

Mah. Viene voglia di disfarsi della Tesla Model Y, l’elettrica più venduta al mondo, e di ricomprarsi una Fiat 128 d’epoca. Ricordate “The Post”? Dentro una 128 verde oliva del 1969 ci entrava a fatica Tom Hanks, il corpulento attore scelto da Spielberg per impersonare il direttore del Washington Post che fa a braccio di ferro con la Casa Bianca e con l’editore Katharine Graham (una splendida Meryl Streep). Nel film, vincono Bradley, Graham e la nostra identità. Oggi, con Bezos e Musk, perdiamo tutti.