Vedi anche le dieci macchine che sconvolsero…

Continua la serie delle auto degne di nota, quelle che hanno avuto una qualche influenza (ma non per questo da sottoscrivere tutte con acritica deferenza!). Non per mettere le mani avanti, ma è questo il caso dell’auto di cui stiamo per raccontare e che quando uscì a molti sembrò fin troppo elementare e priva di charme (i perfidi dicevano che assomigliava a una vasca da bagno).

Eppure la NSU Prinz, soprattutto con la sua seconda serie chiamata Typ 47, ebbe in Italia un certo successo come alternativa alle nostrane 500 e 600 Fiat e perfino alla più pretenziosa 850, per via dello spazio interno e dell’ampia superficie vetrata ispirata alla Chevrolet Corvair d’oltreoceano, quasi ne fosse una versione liofilizzata e senza pretese. Anche in Inghilterra il gruppo Rootes propose un’utilitaria con la stessa concezione tutto-dietro e la stessa linea americanizzante compressa come le scatole di sardine: la Hillman Imp, non proprio un capolavoro.

Tornando alla Prinz: le prestazioni d’altronde erano quelle che poteva fornire un motore bicilindrico di circa 600cc raffreddato ad aria e di derivazione motociclistica (la NSU, nata come costruttore di biciclette, si era poi specializzata in motociclette, tra l’altro ottime), prestazioni non eccezionali ma giudicate sufficienti dalla clientela che trovava questa vetturetta “moderna” e a modo suo “stilosa”, con quella regola rettilinea del suo disegno così diverso dalle ondulazioni tipiche dei centri stile italiani interni alla grande produzione di massa.

Era l’auto della piccola borghesia impiegatizia che non voleva rassegnarsi a essere uguale agli altri e preferiva distinguersi con la macchinetta tedesca, meno cara della corregionale BMW 700 o della bruttarella Austin A40 costruite in Italia dalla milanese Innocenti. Ce l’aveva un mio compagno del liceo, già obsoleta e malconcia, ormai disonorata dal tempo e dall’essere passata per più mani. L’aveva fatta truccare da un meccanico di motorette che aveva abbassato la testata, aumentato i getti del carburatore e svuotato la marmitta, per cui i nostri passaggi davanti scuola non passavano inosservati. Nemmeno però facevano proselitismo fra le ragazze che tiravano dritto ignorandoci, “illesamente dame”, come avrebbe detto la poetessa Patrizia Cavalli. Il colorino verde mela (orribile quanto il tremendo color mandarino e altre opzionali cromie di gusto teutonico) non aiutava certo a far colpo.

Non conquisterà tuttavia la palma della bruttezza che spetta invece di diritto a un’altra utilitaria importata ai tempi in Italia: l’olandese DAF Daffodil 31, che pure fu disegnata dal nostro Giovanni Michelotti, uno dei nostri più brillanti e fantasiosi stilisti ma che quel giorno non doveva essere molto ispirato.
(continua nella prossima puntata)