DELHI – Se Orson Welles, che pur amava l’Italia alla follia, si lamentava negli anni Cinquanta delle Vespette puzzolenti che s’infilavano ronzando dappertutto, chissà cosa avrebbe detto di Delhi e del suo traffico, dove l’Ape della Piaggio si è reincarnata in decine di migliaia di calessini chiamati tuk tuk , dotati in teoria di tre soli posti passeggero ma che in pratica vengono stipati all’inverosimile da turisti o famigliole e volteggiano nel traffico come sciami.
Ne esistono varie motorizzazioni, benzina, diesel e financo elettriche (con insospettabile modernità e sensibilità ambientale), e potrebbero davvero simboleggiare la caleidoscopica città quanto il mausoleo di Humayun, il Forte Rosso o la Jama Masjid, per non dire degli altri strabilianti monumenti.

Ho passato una decina di giorni a Delhi per partecipare all’Habitat International Film Festival – organizzato dal nostro Istituto Italiano di Cultura e dal suo pirotecnico direttore Andrea Anastasio , con il convinto supporto del nostro Ambasciatore in India Antonio Bartoli – e le impressioni di questa megalopoli di 28 milioni e mezzo di abitanti, composta da sovrapposizioni millenarie di popolazioni, culture, religioni, architetture diversissime non si possono certo condensare in poche battute, né voglio commettere l’errore degli stupidotti che capiscono tutto al volo per poi pontificare dopo un rapido ripasso su Wikipedia.
Le sensazioni sono vivissime ma inclassificabili, tale il contrasto e la difformità dal nostro mondo, l’impatto con i suoi abitanti e i monumenti (tra l’altro perfettamente mantenuti e visitati da indiani molto più che dai turisti) è stupefacente e toglie il fiato anche a noi che di tradizione e bellezza e curiosità umana dovremmo sapere qualcosa. D’altra parte non sarà un caso che milioni di giovani l’abbiano vagheggiata e scelta come paradiso in terra non solo negli anni della mia giovinezza ma ancora oggi che fantasie e illusioni sembrano sparite dalla faccia della terra. Mi limiterò perciò alle poche cose che potrebbero interessare questo sito, un punto di vista talmente parziale che non dovrebbe far torto alla pazienza di nessuno.

Una ventina d’anni fa giaceva ancora alla Romana Trasporti – una delle primarie ditte noleggiatirici di attrezzature cinematografiche – una ventina di berline indiane Hindustan Ambassador utilizzate da Dino De Laurentiis per un film e lì abbandonate in attesa di miglior vita. Cercai in tutti i modi di comprarne una, ma le difficoltà per immatricolarla in Italia (per la burocrazia risultava “nuova” anche se vecchia di quarant’anni, dunque mancante dei requisiti minimi di legge, cinture, marmitta catalitica etc.) furono tali da farmi desistere.
Peccato perché si trattava di un’auto robusta e assai riuscita, derivata dal riutilizzo delle vecchie catene di montaggio della Morris Oxford, dall’impressionante longevità. Tanto che ancora oggi – ammodernata, dotata di freni a disco, idroguida, aria condizionata, etc – la si vede in giro, magari non più nelle città (dov’è stata sostituite dalle vetturette prodotte dalla joint-venture Maruti-Suzuki e dalla marea di utilitarie e medie giapponesi, coreane e cinesi) ma nelle campagne e lungo le strade che collegano tra loro i 28 Stati e gli 8 territori dell’immensa Federazione Indiana.

La tecnica di riciclare nei paesi che una volta chiamavamo Terzo Mondo (e ora stanno dando la paga a tutti !) le linee dismesse dalle nostre case automobilistiche ha funzionato anche per l’Italia. Esaurito il compito di motorizzare il nostro ceto medio, la Fiat 1100 D (fabbricata su licenza anche in Argentina dalla Fiat Concord e in Austria dalla Neckar) ha avuto una ulteriore vita grazie all’accordo con la Premier Automobiles Limited per quella che si sarebbe chiamata in seguito Padmini, considerata vettura di rappresentanza, anzi di quasi lusso, prediletta dalla nomenklatura e dai militari.


Sono ormai quasi tutte scomparse dalle metropoli e se vederle in giro suscita nei giovani indiani benevola ilarità negli occhi dei vecchi fa scendere il velo della nostalgia.
(Continua)