Car and Friends

Valerio Berruti
Marco Tullio Giordana

Tutto quello che non dovete sapere sulle auto

Glenn Gould, il pianista geniale. Che amava la Lincoln e la guida spericolata

Musicista tra i più singolari e controversi del ‘900, Glenn Gould nasce il 25 settembre 1932 a Toronto, dove morirà prematuramente il 4 ottobre 1982. Nel 1964 si era ritirato precocemente dal circuito dei concerti continuando però la sua vorticosa attività negli studi di incisione, alla radio, alla televisione. In quegli anni immaginava con entusiasmo che «il concerto pubblico, come lo conosciamo oggi, non esisterà più tra un secolo; le sue funzioni saranno interamente assunte dai media elettronici». Sempre controcorrente e visionario, mi viene da pensare che oggi sosterrebbe l’opposto e sarebbe capace di mettersi a capo di un movimento di liberazione della Musica dai media, strenuo difensore dei concerti e degli spettacoli dal vivo.

Per anni ho voluto sapere tutto su Glenn Gould e leggevo qualunque cosa capitasse a tiro. Sapevo che amava i cani, che mangiava sempre le stesse cose, che difendeva con ogni mezzo la sua solitudine, che in casa suonava con la tv accesa, che andava a dormire all’alba, che prendeva 10 gocce di valium prima dei concerti o delle telefonate importanti, che era un vorace lettore e uno scrittore eccellente (basta leggere L’ala del turbine intelligente. Scritti sulla musica, Adelphi, 1988), che era un abilissimo trader, che aveva lavorato a programmi radiofonici molto più all’avanguardia dei nostri odierni podcast e, infine, che adorava viaggiare in auto.

Come ogni automobilista nordamericano, anzi canadese, Glenn Gould amava la propria auto, soprattutto l’ultima in suo possesso, una Lincoln Continental Town Car del 1977 nera, quattro porte, motore V8, alla quale aveva dato il nome di Longfellow, in omaggio al grande poeta letterato americano Henry Wadsworth Longfellow (1897-1882), uno dei primi traduttori nel mondo anglosassone delle opere in italiano e nelle lingue neolatine.

Prima aveva posseduto una Plymouth Plaza, acquistata nel 1956 per 2.000 dollari, negli ultimi anni, prima della Longfellow, aveva avuto una Chevrolet Monte Carlo e il suo caro amico Lorne Tulk, tecnico CBC Radio, racconta anche di una Pontiac chiamata Lance, della quale non abbiamo però alcun dettaglio sul modello né l’anno.

1958 Plymouth Plaza

Glenn Gould annotava tutto, le ore trascorse al pianoforte, quelle passate a leggere oppure quelle in sala di montaggio, i conti del farmacista, i suoi profitti, la spesa quotidiana, i soldi per le automobili. Per le auto spese una fortuna e alle auto dedicava moltissime attenzioni anche se la sua guida era, per usare un eufemismo, piuttosto distratta. Kevin Bazzana – suo biografo dal quale traggo la maggior parte delle informazioni che seguono – riferisce che gli amici chiamavano posto del suicida il lato passeggero delle auto di Gould.

1970’, Glenn Gould al volante della Chevrolet Montecarlo convertible

Cominciò a guidare da piccolo finendo con l’auto dei genitori nel lago Simcoe, sulle cui rive i suoi avevano comprato una piccola residenza estiva. Se era in compagnia guidava parlando e quando parlava si rivolgeva con lo sguardo al passeggero dimenticandosi della strada. Se era solo si lasciava trascinare dalla musica che proveniva dalla radio, la cui partitura si trovava spesso aperta sul sedile a fianco, finiva per dirigere con entrambe le mani: alla polizia che lo ferma perché lo vede gesticolare guidando a zig-zag attraverso la campagna, Gould dichiarerà di essere stato «sotto l’influenza di una sinfonia di Mahler».

1977, Glenn Gould al volante della Lincoln Continental Town Car 

Come quando sedeva al pianoforte, Gould poteva guidava con le gambe incrociate. Teneva il volante con un dito e manteneva scrupolosamente la distanza di sicurezza perché non sopportava l’odore dei gas di scarico delle altre auto. Ebbe molti piccoli incidenti, nessuno di grande importanza o veramente pericoloso. Andava veloce a prescindere dalle condizioni della strada: la cugina Jessie Grieg ricorda di un incidente durante una tormenta di neve in cui sbandò contro un camion e finì in un fiume. John Roberts rischiò di finire fuori dall’auto durante un testacoda sul ghiaccio in cui si aprì la sua portiera. Si salvò perché Gould lo afferrò prontamente per un braccio.

1977 Lincoln Continental Town Car saloon

I suoi conti registrano continuamente multe da pagare. Nelle corrispondenze ci sono numerose notifiche di punti di demerito e ammonimenti dalla Driver Control Branch. Gli toccava comparire in tribunale e ci sono articoli di giornale che titolano: “Assolto Gould per il quarto incidente” (siamo nel 1958). A Beaverton, nell’Ontario, un giudice appassionato di musica lo lodò per l’onestà della sua deposizione lasciando cadere l’accusa. Gould aveva dichiarato in aula: «Suppongo si possa affermare che guido in maniera distratta, ed è vero che ho attraversato diversi semafori rossi. D’altra parte mi sono fermato a molti verdi senza mai ricevere credito per questo».

D’altronde queste non sono che spigolature, piccole curiosità ai margini del lavoro di un genio. Come tanti altri, sono stato folgorato giovanissimo dalle Variazioni Goldberg di Johann Sebastian Bach suonate da Glenn Gould (era l’incisione del 1981, ne esiste un’altra del 1955 che avrei scoperto più tardi). Non so se sia il disco che mi ha cambiato la vita (non credo mai del tutto a questo tipo di dichiarazioni), ma di sicuro ha stabilito quale traiettoria dovessi seguire da allora in poi. Al punto da farmi pensare che questo guidare fosse funzionale allo sviluppo di sé come artista singolare e che il fatto di passare negli ultimi anni quasi più tempo in auto che al pianoforte era proprio perché in quell’ozio automobilistico le idee si condensavano al punto che poi, davanti al pianoforte, doveva solo limitarsi all’esecuzione manuale.

Glenn Gould e Herbert von Karajan nel 1957
Leonard Bernstein e Glenn Gould nel 1960

Anche tutto l’elenco di atteggiamenti paradossali non gli rende giustizia, la sua musica non si riduce alle eccentricità, come ormai si è portati a pensare a furia di banalizzarlo (così come rischio di fare anch’io!). Fu invece un artista pienamente consapevole, capace di stare al mondo sapendo quello che sta facendo, come lo fa, dove si trova, etc. A un certo punto il meccanismo gli si è rivelato, ha riconosciuto i suoi stessi ingranaggi e tutto si è rotto. Non ha più trovato alcuna soddisfazione a essere il pianista che incideva con Herbert von Karajan o Leonard Bernstein né a riconoscersi nella quotidianità della vita musicale. Ma qui non finisce la sua storia, forse anzi inizia, perché è proprio nelle vette di quel periodo che diventa un artista irraggiungibile (cito a titolo di esempio, oltre alle Goldberg 1981, il disco con le Ballate di Brahms che uscirà postumo). Come a dire: “il giocattolo si è rotto, ma noi non possiamo far altro che continuare a giocarci”. Sta forse in questo la sua inarrivabile modernità.