Car and Friends

Valerio Berruti
Marco Tullio Giordana

Tutto quello che non dovete sapere sulle auto

Parigi, o cara: la Renault 4 e il Sessantotto

Era da poco sorto il sole quando, il 1 agosto 1969, il mio amico Marco ed io cominciammo a caricare nel bagagliaio della mia mitica e rassicurante Renault 4, tutto l’occorrente (in realtà lo strettissimo necessario) per affrontare il lungo viaggio fino a Parigi. La sera prima, mio padre mi mise in mano 150.000 lire (e non ho mai smesso di benedirlo) per un’avventura che doveva durare, secondo i nostri ottimistici calcoli, 10 giorni: andata – visita di Parigi – ritorno; naturalmente le cose non andarono in questo modo, ma è meglio procedere con ordine. Mentre riempivamo la R4 con gli zaini e le vettovaglie varie, questa si abbassò quel tanto da consentirci di capire quanto ancora avremmo potuto osare: era una macchina” intelligente ” che sapeva graduare” da sola ” (altro che tecnologia moderna !) la distribuzione dei pesi ed era tanto robusta da riuscire a portare fino a 9 persone senza schiattare! Certo i freni, specialmente a pieno carico, non erano il massimo, in discesa era meglio limitare la velocità per non avere…sorprese, ma in compenso partiva sempre, se occorreva anche a manovella (ve la ricordate?). L’auto attese che girassi la chiave per accompagnare due stupefatti ventenni nella prima grande avventura della loro vita: era il ’69, c’era stato da poco il maggio francese, disordini a Roma, i primi sintomi di un disperato desiderio di cambiamento e noi partivamo per un sogno con gli occhi aperti e il cuore tra le mani. 

Imboccammo l’Aurelia e con un paio di tappe in altrettanti campeggi per dormire, arrivammo, la mattina del 4 agosto, poco dopo aver superato La Spezia, di fronte alla prima difficoltà del nostro viaggio: il Bracco! Un avversario temibile non certo per l’altezza, (615 mt slm), bensì per la tortuosità dei suoi stretti tornanti; un paio di volte ci dovemmo accodare ad un autotreno a 20 km l’ora in salita, anche fermarci (sempre con il freno a mano tirato, non si sa mai!) per dar modo a chi veniva in senso opposto di passare in sicurezza: superare era fuori discussione sia per la lunghezza del TIR che per la quasi inesistenza di rettilinei e quindi, tanta pazienza e un’oretta persa. 

Da lassù si godeva di un paesaggio di imbarazzante bellezza; il golfo di Moneglia e la riviera di levante dall’alto, sembrava la terra promessa, il ” terra terra ” del nostromo di Colombo, era emozionante vedere quel mare così azzurro con piccole barche che sembravano virgole gettate a caso e per noi l’inizio del Paradiso. 

A scendere fu un attimo e ci trovammo a viaggiare sul mare, se ne sentiva il profumo, la melodia, Chiavari, Rapallo e poi Genova, su la tenda, sosta notturna e, al mattino giù la tenda e via, tutta una tirata fino al confine, poi… vive la France! Costa Azzurra. La mia R4 vibrava di godimento e soddisfazione, ad ogni curva si piegava tanto da dare l’impressione di voler fare una capriola solo per farci vedere quanto era contenta, ma per fortuna la stabilità era assicurata dal discreto peso. 

L’entrata a Nizza fu trionfale. Il paradiso era francese, san Pietro era francese, parlava francese, improvvisamente senza darci nemmeno la possibilità di capire, abbacinati dal lungomare di palme, di sole…e di francesi, tanti francesi. La mia R4 era perfettamente a suo agio, in fondo per lei si trattava di un ritorno in patria, talmente a suo agio che sembrava non aver bisogno della mia guida, andava da sola. E noi, chissà come, capivamo questa nuova lingua: merito suo? chi lo può dire. 

Poi, poco prima di Marsiglia, cominciammo a deviare verso l’interno: direzione Paris fino ad Avignone e poi come spade verso il Lido e il Moulin Rouge. Quasi sonnecchianti e vagheggiando di incontrare la Bardot (“Pensa che c…se…) con la R4 che andava morbida come una gondola nella Laguna, improvvisamente una visione, un miraggio: una femmina in pantaloncini e zainetto in spalla (almeno così sembrava) che faceva l’autostop! Non capimmo subito la situazione ma, istintivamente, spinsi il piede sul pedale del freno, più forte, sempre più forte e la macchina quasi rispose “ho capito, ho capito” e quando finalmente ci fermammo (in tutta onestà i freni non sono mai stati un punto di forza della R4) ci apparve lei, uno schianto con una testa di capelli ricci su di un corpo strizzato nella camicetta ai limiti dell’infarto e due occhioni blu: era la risposta alle nostre più sfrenate preghiere. 

Voleva un passaggio, proprio da noi. Da non credere, eppure era vero: caricammo il suo zaino, salì in macchina e si presentò: “my name is Cilly”, era inglese naturalmente,ma questo fu solo l’inizio; poi ci disse (e li fu più faticoso per noi capire) che doveva andare ad Amsterdam! Amsterdam?? E che…che ci vai a fare fino lassù? chiedemmo e intanto io pensavo: …e se l’accompagnassimo? Guardai Marco e spedii l’imput: …ce la possiamo fare. E ce la facemmo, o meglio “ce la fece” la mitica. Lo sforzo maggiore fu il suo, perché carica un po’ 60/70 kg in più tra Cilly e il suo zaino senza nemmeno un sospiro! Con 750 cc non è facile, specialmente in salita; ma “lei” fu grande e senza battere ciglio e nonostante tutto, con grande dignità, ci portò fino a Parigi. 

In realtà vedemmo poco, giusto Champs-Elysées, Arc de Triomphe e, in lontananza, la Tour Eiffel. Quasi niente, ma avevamo la testa comprensibilmente altrove (del tipo: ci starà, non ci starà e con chi dei due?) e anche grande curiosità di vedere la “Venezia del nord”, così chiamavano Amsterdam. La mattina dopo eravamo già in Lussemburgo, poi il Belgio; capimmo di essere arrivati dall’improvviso cambiamento della lingua,veramente repentino (eravamo nel Benelux, niente confini), girato l’angolo di un palazzo era come un altro pianeta :non solo la lingua, ma anche l’abbigliamento, la fisionomia, era incredibile. Eravamo ad Antwerpen (che poi sarebbe Anversa) nel Belgio settentrionale, quasi a cavallo tra i due stati in un campeggio molto sabbioso, dove trascorremmo la notte in tenda, tutti e tre, con vari tentativi disperatamente infruttuosi. Abbandonate, per ora, le maschie velleità, ripartimmo per Amsterdam, dove giungemmo trionfalmente, viaggiando tra decine di mulini a vento: l’R4 non aveva fatto una grinza fino a quel momento, solo benzina e pedalare, fantastica! 

Accompagnammo la nostra ragazza inglese a Calais, da dove sarebbe partita per tornare a casa e, al grido di “dobbiamo assolutamente rivederci”, la lasciammo andare, intimamente sapendo che mai più ci saremmo incontrati. Con la consapevolezza di aver perso qualcosa e anche di aver consumato quasi tutte le nostre riserve auree, ci apprestammo al viaggio di ritorno che fu nondimeno avventuroso. 

Cominciamo col dire che fu tutta una tirata fino a Genova, dove, nel porto, si proprio all’aperto, sulla banchina, trascorremmo la notte Il giorno dopo fatto l’ennesimo pieno, imboccammo l’Aurelia e, confidando sulla robustezza della R4 e su tanta, tanta fortuna, iniziammo a macinare chilometri su chilometri per avvicinarci il più possibile a quella villetta di Fregene Sud,dove i miei cari genitori stavano attendendo il nostro ritorno.  Gli ultimi soldi, proprio gli ultimi, servirono per la benzina: soltanto un pacchetto di biscotti, mezzo di sigarette, molta fretta di arrivare e una fame come si può solo a vent’anni. 

Quando arrivammo, verso le 10 di sera, mio padre ci guardò e, senza pronunciare parole, uscì e tornò poco dopo, con in mano un pacchetto che emanava un profumo quasi commovente per la sensazione che procurò alle nostre narici: c’erano due polli arrosto in quel pacco e mai pasto fu più gradito.