Car and Friends

Valerio Berruti
Marco Tullio Giordana

Tutto quello che non dovete sapere sulle auto

Il gattone inglese e le Mille Miglia. La Jaguar di Aymo Maggi, uno dei fondatori della corsa più bella del mondo

1959, Emanuele e Marco Tullio (con la macchina fotografica) Giordana

I ricordi d’infanzia si collocano in uno spazio/tempo indefinito, sfuggono alla cronologia e alla successione di eventi così come cerchiamo di raccontarli per mettere ordine nella nostra vita e illuderci che segua una logica. Alcuni ricordi, sensazioni, soprattutto odori – e per me anche suoni e immagini a causa di una vocazione precoce – ogni tanto riappaiono con la precisione di una fotografia. Il ricordo, in questo caso, è di una delle automobili più belle prodotta dall’industria inglese, la Jaguar 3.8 MK2. Costosa, ma non quanto si potrebbe immaginare: accessibile sarebbe troppo dire, ma alla portata di quella schiera di imprenditori brillanti e fattisi da sé che negli anni ’50 e ’60 sono stati il nerbo del nostro miracolo economico. Si trattava di una berlina 4 porte, 5 posti, dalla spiccata vocazione sportiva (il motore, depotenziato, era lo stesso che aveva vinto tre
volte di seguito Le Mans, nel ’55, ’56, ‘57) e già questo la collocava in una nicchia specialissima.

Le berline sportive non appartenevano alla tradizione continentale; in Francia, Germania e Italia le berline erano destinate alla famiglia mentre le sportive erano appannaggio di solitari facoltosi. In entrambe le categorie l’industria europea vantava prodotti eccellenti, ma ben distinti e separati, tranne forse in Italia, dove l’Alfa Romeo aveva in produzione la 1900 Super e la 1900 TI, “la berlina che vince le corse” come recitava il claim fortunato (Ignazio Giunti, audace e mai abbastanza rimpianto pilota, si era fatto le ossa correndo di nascosto con l’Alfone di papà). La 1900 era però spartana, tutta motore, frenata e tenuta di strada, bella ma non lussuosa. La Lancia aveva in produzione l’Aurelia B10 e la più spinta B21, quelle sì rifinite con cura ma dalle prestazioni imbrigliate, buone per lunghi confortevoli viaggi, non certo per sgommare o competere con le moto ai semafori (tra l’altro nessuno dei possessori si sarebbe mai sognato di farlo!). Chi si fosse rivolto al mercato estero avrebbe trovato morbidezze avveniristiche nelle Citroen DS o austero formalismo nelle Mercedes W110, predilette da vescovi e nobildonne, auto a loro modo eleganti ma non proprio divertenti. Le altre – Fiat, Renault, Peugeot, Simca, Opel, Ford, Borgward etc. – costruivano robuste e affidabili automobili, che però non facevano sognare. Facevano sognare le nostre Maserati e Ferrari, le francesi Facel Vega, le spagnole Pegaso, le tedesche Mercedes Gullwing o le svelte cutrettole Porsche, allora confinate nelle cilindrate medie ma già cattive e pronte al salto.
E poi le inglesi Aston Martin, Alvis e Jaguar E type, con quella linea (disegnata da Malcolm Sayer) che faceva invecchiare tutte le altre, ma si trattava di auto quasi da corsa: due posti secchi e bagagliai minuscoli, invasi dal serbatoio.
L’apparizione della MK2 cambiò tutto. Nasceva la berlina sportiva di lusso a buon prezzo (anche se le tasse d’importazione colpivano duro) e nel segmento apriva una pagina nuova.


Compatta, linea di cintura alta, ampia finestratura piena di deflettori e cromature (che dovevano attrarre i concessionari americani), ruote a raggi che con congruo sovrapprezzo la dichiaravano corsaiola, motore a corsa lunga, grande coppia fin dai bassi regimi e ragionevole affidabilità. Erano soprattutto gli interni a colpire: radica dappertutto e di quella buona (come su quasi tutte le inglesi), pelle Connolly dal profumo inconfondibile, moquette spessa, insomma un salotto senza ghiribizzi modernisti, rassicurante, confortevole. Il cambio era a cloche, invece che al volante come nella concorrenza, e già questo era indizio di sportività. La levetta dell’overdrive permetteva di abbassare ulteriormente il numero di giri e consentire alte medie autostradali, la ricca strumentazione Smiths sembrava quella di un aeroplano.

Avviando il motore, l’efficienza dei silenziatori non nascondeva la possanza del 6 cilindri in linea, progettato dal patron sir William Lyons e dall’ingegnere capo William Heynes, equilibratissimo e collaudato ormai da una quindicina d’anni. Difetti? Progettato per climi freddi, il motore tendeva a surriscaldare e l’impianto elettrico Lucas, soprannominato Prince of the Darkness come il Conte Dracula, si dimostrava capriccioso. Anche l’overdrive poteva dare problemi se non ne veniva osservata con scrupolo la manutenzione. La tenuta di strada, per quanto inferiore alle nostre supreme Alfa, era piuttosto buona, anche se sul bagnato, con tutto quel peso, c’era sempre da stare attenti. Ma un bambino di dieci anni che la vede per la prima volta non sa niente di queste cose e nemmeno gli importano; vede quel gattone acquattato e sogna solo di diventare grande per poterla guidare. A me successe nell’autunno del 1959 a otto anni, a Calino, in Franciacorta, nella tenuta dove s’era ritirato Aymo Maggi, fondatore nel 1927 della Mille Miglia, insieme a Renzo Castagneto, Giovanni Canestrini e Franco Mazzotti.

1927, Aymo Maggi, Renzo Castagneto, Giovanni Canestrini, Franco Mazzotti

Nel 1959 Aymo Maggi aveva da poco subito un infarto, un secondo l’avrebbe strappato alla storia dell’automobilismo nel 1961. La MK2 uscì nel 1959 e dunque quella che mi apparve doveva essere una delle prime, forse addirittura la prima portata in Italia. Lo deduco dalla curiosità ed eccitazione dei presenti che affollano Calino, la bella villa cinquecentesca dove Aymo Maggi amava ospitare amici ed equipaggi prima della corsa. Ma dopo l’incidente di Guidizzolo nel 1957 (oltre al pilota Alfonso de Portago e al copilota, Edmund Gurner Nelson, morirono nove spettatori, tra cui cinque bambini, e numerosissimi furono i feriti) la Mille Miglia è sospesa e il conte fondatore si è ritirato amareggiato fra le sue vigne. Mia madre, amica di sua moglie Camilla, al termine di una noiosa (e perciò bellissima) estate cremasca mi porta lì, forse per distrarmi. Mio padre è morto da pochi mesi in un incidente aereo, in famiglia stiamo tutti cercando di non risultarne sconvolti a vita e non annegare nel dolore. Attraverso anch’io un periodo confuso; la perdita di mio padre, severissimo e dominatore, mi sembra una liberazione e questo sentimento pieno di ambivalenze mi fa sentire in colpa. Ho paura che mia madre possa risposarsi e fare la fine degli orfani nei romanzi di Dickens che mia sorella Barbara legge a me e mio fratello quando siamo malati. Ho dunque una sorta di odio istintivo per qualsiasi uomo, li guardo tutti con aria torva, da bambino cattivo.
Compare Aymo ed è invece amore a prima vista. Intanto è alto, molto sopra la media, atletico malgrado l’età (56), e assomiglia a John Wayne come un gemello separato in fasce. Ha una voce possente e tutti lo guardano come a un condottiero. Mi sembra meraviglioso come Ethan Edwards, l’eroe di Sentieri Selvaggi che ho appena visto al Cinema-Teatro Nuovo di Crema sito nella stupenda chiesa sconsacrata di San Domenico. Proprio come Ethan, che nell’ultimo rullo del film – anziché scannarla perché è diventata una comanche – prende teneramente in braccio Nathalie Wood e le dice: “Torniamo a casa, Debbie”, Aymo Maggi mi strizza l’occhio e ad alta voce perché tutti ci seguano proclama: “Voglio far vedere una bella macchinina a questo mio giovane amico” e ci porta verso il cortile dove si aprono le autorimesse mentre scende la sera e con lei la luce. Io tocco il cielo con un dito, investito e beneficato dallo stesso carisma di John Wayne che addirittura promette: “Domani ce ne andiamo a fare un giro”. Si spalancano i portelli di pesante larice valtellinese e appare lei, la 3.8 MK2.

1956, The Searchers, di John Ford. John Wayne nel ruolo di Ethan Edwards

La Jaguar, color Midnight Blue, che sarebbe una profonda tonalità del blu ma sembra invece un nero minaccioso, è ricoverata in un garage lindo e pinto come una sala operatoria, l’attrezzeria riposta con cura, gli scaffali pieni di ricambi etichettati con voluttuosa calligrafia. Sembra davvero un gattone addormentato, una pantera piuttosto che il giaguaro di cui porta il nome, sottolineato dalla mascotte art déco protesa sul cofano.

Una pantera nera che magari graffia se la svegli e mi colpisce come il conte John Wayne apra con disinvoltura il cofano spiegando cose che capisco solo ora, col senno di poi. Quella MK2 non è come le altre: monta una batteria di tre carburatori, come quelle destinate al mercato americano, e non gli Standard Union d’ordinanza che i carburatoristi italiani non riescono mai a regolare. Ne nasce un dibattito sulle virtù meccaniche di ogni nazione; sono molti gli stranieri e ognuno tira acqua al suo mulino. Tutte quelle chiacchiere mi stordiscono, non ho la competenza per seguirle, piuttosto non vedo l’ora che arrivi il giorno dopo per fare, come promesso, un giro sul gattone blu. Che sembra invece nero nero e che un giorno o l’altro dovrò comprarmi anch’io, facendomi spiegare dal nuovo amico per la pelle Aymo come prendere le curve in sovrasterzo e mettere tutte le altre auto in riga dietro di noi nel retrovisore.