Voglio una vita esagerata/Voglio una vita come Steve McQueen… Quando Vasco Rossi intona (o stona secondo i puristi) questi versi sul palcoscenico di Sanremo 1983 nessuno avrebbe potuto immaginare che sarebbero entrati nella leggenda. Il Blasco finirà penultimo nel giudizio della (poco) chiaroveggente giuria, ma il suo canto libero in elogio alla solitudine e all’orgoglio del disadattato, che cita come emblema l’attore morto da appena tre anni, diventerà il più celebre del rocker di Zocca, l’inno di generazioni contropelo che continueranno nel tempo ad amarla come fosse scritta apposta per loro.

D’altra parte Steve McQueen (Beach Grove, 1930 – Ciudad Juarez 1980) ha vissuto nella stessa scia del coetaneo James Dean senza perdere lo stesso fascino ribelle e bruciato nemmeno col passare degli anni, cedendo alla malattia anziché al mortale car crash che pure molte volte ha rischiato. Amante anche lui delle corse – come l’altro seducentissimo Paul Newman – aveva più volte meditato di ritirarsi e dedicarsi soltanto a quelle, tanto dotato da giungere secondo a Sebring nella 12 Ore del 1970 col copilota Peter Revson dietro la coppia Mario Andretti/Arturo Merzario. E sì che aveva guidato col piede sinistro ingessato per via di una frattura procuratasi due settimane prima in una gara di motocross a Lake Elsinore. Se James Dean fosse sopravvissuto al maledetto incrocio di Cholame (in California, dove la Ford Tudor Custom guidata dal ventitreenne Donald Gene Turnupseed centrò in pieno la sua Porsche 550 spyder battezzata Little Bastard) forse non ci sarebbe stato posto per altri. La sua morte liberò il podio dove s’installerà McQueen rendendo adulta la sua ribellione “senza causa”.
Figlio di uno stuntman McQueen non aveva mai voluto essere da meno del padre, sempre guidando di persona macchine e moto di scena, dalla Triumph de La grande fuga alla Ford Mustang di Bullit, dalla Gulf-Porsche 917 de Le 24 ore di Le Mans alla Dune Buggy de Il caso Thomas Crown, dove scorrazza sulla spiaggia con la stupenda Faye Dunaway, sempre rischiando l’infarto dei produttori perché le compagnie di assicurazioni rifiutavano di coprirlo. Tanto da costringerlo a mettere in piedi una propria casa, la Solar Productions, con la quale realizzare i suoi futuri film e soprattutto finanziare le sue gare.

Corse e film a parte, anche nella vita privata Steve McQueen ha sempre manifestato la stessa passione per le automobili, non disdegnando di accompagnare le esclusive Ferrari 250 Lusso o 330 GTS, Porsche 356, Lotus 11, Mercedes 300 SL con le più comuni Austin Cooper S o casalinghe Hudson e Chevrolet americane. Forse la preferita, a giudicare dalla quantità di fotografie che lo ritraggono con orgoglio al volante, fu la Jaguar XKSS, derivata dalle corse di Le Mans e antesignana della Jaguar E pronta per uscire e conquistare il mondo con la sua linea filante e avveniristica.

Come tutti gli eroi cari agli dei, Steve McQueen muore relativamente giovane. Ha compiuto da sei mesi i cinquanta quando il Grande Sonno lo raggiunge il 7 novembre 1980 illudendosi di averlo spazzato via. La morte, che addolora in ugual misura ragazze e ragazzi piacendo in modo irresistibile alle une e agli altri, lo consegna invece alla leggenda e lo sottrae all’oblio. Milioni di adolescenti adottano il suo modo di vestire, che siano jeans sdruciti o giubbotti dei suoi maschi irritabili (Bullit, Nevada Smith, Cincinnati Kid, etc) oppure i sofisticati completi in tre pezzi da ladro-gentiluomo (Il caso Thomas Crown) realizzati su misura dal sarto londinese Douglas “Dougie” Hayward, l’epitome dell’eleganza swinging London. Perché sotto qualsiasi travestimento palpita lo stesso cuore di non riconciliato, di irriducibile uomo-contro.
