Car and Friends

Valerio Berruti
Marco Tullio Giordana

Tutto quello che non dovete sapere sulle auto

La doppietta che piaceva agli italiani

Doppietta. Essenziale, chiariamo subito, è sciogliere le ambiguità. Molti, leggendo, penseranno al doppio gol di un campione in partita o magari a due vittorie consecutive di una squadra e perfino a un doppio colpo al tavolo da gioco. C’è poi l’ipotesi che ci si spinga fino al primo sostantivo che la celeberrima Treccani offre alla consultazione, ovvero: “fucile da caccia a due canne giustapposte, generalmente ad anima liscia”.

Ma solo ai boomer o agli appassionati della Fiat 500 originali – altrimenti detta, a Roma, il Cinquino – verrà in mente l’indispensabile tecnica per scalare la marcia: roba dell’epoca in cui la sincronizzazione del cambio era un lusso per “la super-utilitaria torinese”. Eh sì, la semplice parola superutilitaria, soppiantata dalla attuale citycar, a ripeterla ora sembra un insulto al censo (e al portafoglio del proprietario), figuriamoci affrontare la manovra della doppia debraiata nell’era della guida automatica e futuristicamente (nemmeno troppo) autonoma.

Quella che sembra una parolaccia deriva dal francese débrayer: disinnestare, staccare. E si riferisce – tecnicamente parlando – al “doppio disinnesto del cambio tramite il disco della frizione durante un cambio di marcia ascendente o discendente”. Nella praticaper fare la doppietta bisognava: premere la frizione e mettere in folle, rilasciare la frizione, accelerare un po’, premerla di nuovo e inserire la marcia inferiore. La sequenza, rigorosamente, nell’ordine appena descritto. Detta così sembra chissà quale impresa! Soprattutto per le diciottenni abituate a guidare oggi la maneggevolissima Smart e le sue consorelle automatiche.

Nella mia memoria di ragazza, in verità, si trattava di fare un gioco di piedi e di orecchie indispensabile per non grattare e compromettere il cambio. Con il movimento del collo del piede bisognava essere abbastanza abili per “staccare” e quindi “riattaccare” la frizione al momento opportuno, ma “ascoltando”. Perché era necessario saper cogliere l’aumento o la diminuzione dei giri del motore. Il ritmo che mutava. Come se nel cofano si nascondesse “un complesso che suona la propria musica”, mi ripeteva mio padre. Io lo guardavo sbigottita, tuttavia non avevo il coraggio di contraddire il mio primo (e severissimo) istruttore di guida. A sedici anni la storia dell’imparare a “sentire la macchina” mi pareva una follia.

La Fiat 500 D, color blu notte, battezzata Pallina, è arrivata nelle mie mani con qualche acciacco e parecchi chilometri addosso. È stato amore a prima vista. Tirata la leva dell’aria (a destra del sedile) e poi quella dell’accensione, mi salutava ogni mattina con un’amichevole borbottio. Se pur “anziana” mi ha accompagnata ovunque, non ha avuto mai una défaillance. È riuscita perfino a cimentarsi in brevi viaggi.

Fare una doppietta senza attenzione avrebbe significato maltrattarla, se ne sarebbe accorta. Quasi avesse un cuore. Ogni suo rumore era un indicatore. Non c’erano spie a segnalare malesseri. Quando capitava di mettermi al volante di altre auto, più performanti e più potenti, mi sembrava che scalare senza doppietta fosse davvero troppo facile. Un andare incompleto. Mi aspettavo di grattare e spaccare tutto, all’improvviso.  Ovviamente non è mai accaduto. Le automobili si sono trasformate velocemente. E pian piano ai motori è stato imposto il silenzio.