
Il 29 Aprile dello scorso anno è stata esposta a Roma, davanti a Palazzo Chigi, una Giulietta berlina color Azzurro nube targata MI 315093 appartenuta a Enrico Mattei. Questa sindone era offerta nella ricorrenza del compleanno del fondatore dell’Eni (29 aprile 1906 – 27 ottobre 1962) ma soprattutto per promuovere il cosiddetto Piano Mattei per la cooperazione con l’Africa che il Governo ha voluto intitolare all’uomo che più si è battuto per dare all’Italia un piano energetico indipendente.
L’importanza di questa figura pubblica è oggi universalmente riconosciuta, ma non va dimenticato che ai tempi egli ebbe contro non solo le grandi compagnie petrolifere internazionali (da lui battezzate Sette Sorelle: Royal Dutch Shell, Standard Oil (poi Exxon), Anglo-Persian Oil Company (diventata poi British Petroleum), Mobil, Chevron, Gulf e Texaco) ma anche tutti i partiti italiani di opposizione, dai comunisti ai liberali, dai monarchici ai missini, dei quali soprattutto fu la bestia nera (malgrado finanziasse sottobanco pure loro grazie alla corrente filo-araba di Pino Romualdi). Non saremo perciò così ipocriti da cantarne solo le lodi: il finanziamento occulto dei partiti fu praticato con disinvoltura anche da Mattei al fine di rendere inoffensiva l’ostilità ai suoi piani. Niente di nuovo sotto il sole.

Secondo un dispaccio dell’Ambasciata americana recentemente desecretata dalla CIA e datato 11 agosto 1955, Mattei “era stato fascista fino al 1943 ed era entrato nella Resistenza dopo l’8 settembre di quell’anno, stando però attento a mantenere buoni rapporti con i tedeschi: quando divenne chiaro che la vittoria alleata era ormai certa pagò cinque milioni di lire a un comandante partigiano della Democrazia Cristiana per acquisire il rango di capo partigiano della Dc e generale della Resistenza nel CNL”. C’è da fidarsi di questo documento appena reso pubblico nell’ambito dell’inchiesta sulla morte di Kennedy? Mattei era detestato dai petrolieri americani e l’amministrazione USA era preoccupata dalla sua influenza sulla politica estera italiana verso i paesi arabi, dunque non mi stupirebbe l’intento diffamatorio. Molto improbabile che, per la sia pur ragguardevole somma di 5 milioni, Mattei si sia comprato un posto d’onore nel Comando generale del Corpo dei Volontari della Libertà. E chi sarebbe il corrotto? Niente nomi, niente prove, solo voci di corridoio, aria fritta.

Dunque comandante partigiano, esponente della Democrazia Cristiana nel Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia (CLNAI), Mattei fu incaricato nel 1945 dal governo di unità nazionale guidato da Ferruccio Parri di liquidare l’Agip, che il regime fascista aveva creato nel 1926. La riorganizzò invece creando nel 1953 l’Ente Nazionale Idrocarburi (Eni) di cui l’Agip divenne struttura portante. Sappiamo – grazie anche al bel film di Francesco Rosi Il caso Mattei del 1972 – come andò a finire: un’esplosione disintegrò il suo Morane-Saulnier MS760 (un fulmine, si disse) la sera del 27 ottobre 1962 dilaniandolo assieme al pilota Irnerio Beruzzi e al giornalista di Time-Life William McHale.
La tesi adombrata dal film, e ripresa in anni successivi senza approdare a conclusioni univoche, è che sia stato un attentato mafioso commissionato dall’OAS francese, l’organizzazione terroristica di estrema destra responsabile anche del fallito attentato al Presidente de Gaulle. Le Sette Sorelle, che nessuno può accusare senza sembrare un ingenuo complottista, non dovettero comunque soffrirne. Attentato o incidente che sia (non ne so abbastanza per pronunciarmi a favore dell’una o dell’altra tesi, anche se a gridare al complotto si fa sempre la propria porca figura) è un fatto che la scomparsa di Mattei abbia di molto ridimensionato le ambizioni italiane in materia di indipendenza energetica e tagliato le unghie allo sviluppo economico che questa avrebbe favorito.

Torniamo alla Giulietta Alfa Romeo, vettura di cui ricorre il settantesimo compleanno. Com’è noto faceva parte del programma di questa azienda milanese partecipata dall’IRI (dunque anch’essa in mano pubblica) di convertire la fabbrica, sino a quel momento specializzata in auto da corsa e vetture super lussuose, a prodotti di più largo consumo. La 1900 del 1950 fu la prima tappa, ma si trattava ancora di un’auto costosa. La Giulietta, pur rispettando il blasone sportivo della factory, doveva accedere al più largo mercato di quel ceto medio in pieno sviluppo grazie agli aiuti del piano Marshall, studiato per risollevare l’Europa dal dopoguerra (Germania compresa) e distribuire meglio il benessere, sola garanzia di pace e democrazia.

Il successo della Giulietta (che tra l’altro non doveva interferire con le concorrenti Fiat 1100 e Lancia Appia e perciò insignita della superiore cilindrata di 1300 cc ) si sarebbe misurato nelle oltre 170.000 vetture, prodotte nel corso di una decina d’anni in varie declinazioni. La principale novità era il motore interamente fuso in lega leggera, con una distribuzione bialbero a camme in testa fino a quel momento appannaggio di vetture di categorie molto superiore. La brillantezza di questa unità, l’indovinata ripartizione dei pesi, la frenata eccellente e l’eccezionale tenuta di strada, ponevano la giovane media italiana al vertice della categoria, ulteriormente benedetta da palmarès sportivi che le altre potevano vedere solo col cannocchiale.
Il disegno di carrozzieri geniali – come Bertone, Pininfarina, Zagato per le versioni sportive, e dell’ottimo Centro Stile interno per le berline – accrebbe il fascino di questo modello che fu veramente negli anni Sessanta la “fidanzata” d’Italia e ancora oggi suscita ammirazione in chi la veda passare per strada. Vorrei ricordare i nomi dei dirigenti pubblici che la promossero, non razza “padrona” ma illuminati e fedeli servitori dello Stato: Pasquale Gallo, Giuseppe Luraghi, Francesco Quaroni, e i progettisti Orazio Satta Puliga, Giuseppe Busso (che iniziò negli anni Trenta come semplice disegnatore), Gianpaolo Garcea, Rudolf Hruska e tanti altri cui dovremmo erigere busti al Pincio se non corressero poi il rischio di essere vandalizzati.

Fu momento in cui industria pubblica e privata erano insieme all’offensiva, regnava la tregua sindacale e la parola “assistenzialismo” non era stata ancora inventata. Varrebbe la pensa ricordare anche gli uomini politici che, andando contro anche il loro stesso partito, furono il sostegno di una visione industriale che riscattasse il Paese dallo sfacelo della guerra: Amintore Fanfani e Aldo Moro, i cosiddetti “cavalli di razza” della Democrazia Cristiana. Fu stagione breve e non si può altro che rimpiangerla. Perfino durante gli scioperi dell’autunno caldo del ’69, i picchetti si aprivano per lasciar passare l’ingegner Orazio Satta che voleva raggiungere il suo ufficio. L’ormai anziano progettista si guardava intorno spaesato e non si dava pace per quelle agitazioni che non capiva. Me lo raccontò un vecchio operaio Alfa in pensione. Dalle sue parole capivo che l’ammirazione per “l’ingegnere” era rimasta intatta.

Ultima osservazione sulla Giulietta di Mattei del 1956. È un modello berlina, meno potente della TI (Turismo Internazionale) presentata nello stesso anno. L’uomo dell’azienda pubblica più importante d’Italia non aveva preteso la versione spinta, né tantomeno l’Alfa 1900 o la lussuosa Lancia Flaminia o le successive Fiat 1800 e 2100 sfoggiate dalla nomenklatura e dalla classe dirigente. Nemmeno aveva voluto un colore scuro, non smaniava perché l’auto di servizio rivelasse il suo rango. Come Lord Brummel, preferiva attraversare Londra passando inosservato, come si addice al gentiluomo. Si sedeva accanto all’autista Antonio Freddi e spesso voleva prendere il volante e guidare lui. E, dulcis in fundo, la macchina se l’era comprata lui (proprio come faceva il Generale de Gaulle!), non l’aveva caricata sulle spalle dei contribuenti. C’è bisogno di aggiungere altro? Vietato fare paragoni.