Gli epistolari sono un genere letterario che da sempre vanta cultori appassionati. In equilibrio fra memoir e confessione, diario in pubblico e resoconto riservato, gli epistolari forniscono involontariamente il ritratto di chi scrive, di chi riceve, di chi risponde e chi no, spesso rivelando retroscena caratteriali sconosciuti e l’affresco sullo sfondo degli ambienti in cui si agitano. Tanto che la loro lettura finisce per descrivere anche il momento storico e la comunità che vi agisce, proprio come un saggio o, ancor meglio, in un avvincente romanzo. Non fa eccezione il primo volume delle corrispondenze fra Luchino Visconti (Milano 1906-Roma 1976) e varie personalità contemporanee a opera di Caterina d’Amico de Carvalho e Alessandra Favino, immenso lavoro che colloca queste due studiose fra i massimi esperti del regista milanese. Pubblicato dalla Cineteca di Bologna, il ponderoso volume (892 pagine, € 29,00, vista la quantità perfino pochi!) è un testo imprescindibile per quanti ammirano e studiano questo artista che ha saputo spaziare fra cinema, prosa e teatro musicale, con l’autorità di un caposcuola e l’esuberanza di un travolgente riformatore. Capace oltretutto, e questo libro ne da scrupolosissimo riscontro, di una latitudine immensa di interessi, progetti e curiosità, sviluppando una massa critica di lavoro che appare oggi irraggiungibile.
Gli appassionati leggeranno tutto d’un fiato e alla fine prenoteranno in libreria il secondo volume in arrivo a breve. Questo primo comincia con una lettera dell’8 giugno 1920 dell’amica di famiglia Giulia Besana che si complimenta per una sonata di Benedetto Marcello eseguita dal non ancora quattordicenne Luchino (compirà gli anni il 2 di novembre) al violoncello, e si conclude con una lettera di Visconti dell’ottobre del 1961 al Ministro del Turismo e dello Spettacolo Alberto Folchi, intervenuto assai impropriamente a gamba tesa sul film Rocco e i suoi fratelli che, fosse stato per lui, nemmeno l’avrebbe fatto uscire. L’establishment non ha mai amato le opere contropelo e ha sempre fatto di tutto per rendere la loro vita impossibile.

Il secondo volume andrà a coprire gli anni dal 1961 al 1976 e, come si vedrà, le battaglie contro forbici censorie, “comune senso del pudore” e anatemi governativi aumenteranno invece che diminuire in armonia con la crescita di un Paese sempre meno bigotto e più ardito. Non possiamo che suggerire questi due testi non soltanto a chi ammira Visconti ma anche a tutti coloro che amano il cinema e la sua storia, particolarmente avventurosa quella del cinema italiano e la sua grandezza, sempre a dispetto delle autorità che anziché promuoverlo hanno agito per soffocarlo dove non riuscivano a contenerlo o renderlo inoffensivo.
Ma il cinema è arte selvatica, non è un cagnolino che scodinzoli per piatire l’osso dal padrone, né animale da cucina o da cortile. Arte selvatica perché si rivolge a qualcuno che non vuole soltanto evadere e stordirsi ma sentirsi rappresentato, raccontato senza menzogne, edulcorazioni o infingimenti. Il cinema – ma potremmo dirlo di qualsiasi disciplina artistica – non si riproduce in cattività. Grazie a Visconti, e ovviamente anche a tutti gli altri, il cinema italiano ha saputo sempre difendersi e guadagnare quel prestigio che ancora inorgoglisce. Valga per tutti noi come esempio, come aspirazione a esserne degni e non come un privilegio che consenta di vivere di rendita.
Questo nostro sito si occupa soprattutto di automobili e Luchino Visconti, come tutti quelli della sua generazione che ne avevano visto gli albori, le amava molto, come possiamo vedere in molte foto che lo ritraggono accanto ai suoi bolidi. Dalla Bmw 507, che prestò alla produzione del suo film Vaghe stelle dell’Orsa del 1965…

… alla Lancia Aurelia B20 con la quale arrivò al Festival di Cannes del 1962 in compagnia di Romy Schneider e Alain Delon.

Ce ne saranno state un’infinità di altre ma qui preme ricordarne una in particolare che ebbe una influenza determinante sulla vita del giovane Luchino, tanto da provocare in lui una crisi così forte da fargli cambiare vita e prospettive prima di ritrovare una vocazione. Per raccontarla, dobbiamo prenderla un po’ alla larga.
Poco tempo fa è stata nuovamente messa all’incanto un’Alfa Romeo 1750 Super Sport che aveva già fatto la sua comparsa a Peeble Beach nel 2018 suscitando grande scalpore. L’auto, proveniente dal Sud Africa, dov’era stata esportata nel 1942, era appartenuta ai fratelli Nasturzio ed era una delle prime 1750 SS delle 121 prodotte dalla ditta milanese, carrozzata da Zagato e utilizzata soprattutto per le corse. L’auto in vendita non aveva più il suo vestito originale, sostituito da una carrozzeria in acciaio ugualmente elegante e di scuola italiana, destinata a vita civile anziché agonistica come rivelava l’assenza di sportelli (il regolamento dell’epoca obbligava ad averne almeno uno). Non sappiamo chi ne sia stato l’artefice e saremo anzi grati a chi sapesse darne notizie.

La tormentata storia di quest’auto mi ha ricordato di un’altra 1750 appartenuta al campione Giuseppe Campari, all’industriale e gentleman-driver Enrico Wax e, prima ancora, alla famiglia Visconti di Modrone, ed ebbe appunto il ruolo sventurato e cruciale che dicevamo nella vita di uno dei più grandi registi del Novecento.

Chinacci era il vezzeggiativo con cui in famiglia veniva chiamato Luchino Visconti, anzi il Chinacci, alla maniera lombarda. Discendente dai magnami lombi di una dinastia che dalla natìa Lomellina e dal Piacentino dov’erano feudatari vice-comites – da cui il cognome – avevano conquistato terre dal Vercellese alla Valtellina, da Verona e Belluno, senza trascurare il Senese e la Lucchesia, nonché esercitato la loro signoria su Milano dal 1277 al 1365. Fu proprio Milano a regalare l’emblema araldico alla dinastia, come ci racconta Bonvesin della Riva nel suo De magnalibus urbis Mediolani: «Viene offerto dal comune di Milano a uno della nobilissima stirpe dei Visconti che ne sembri il più degno un vessillo con una biscia dipinta in azzurro che inghiotte un saraceno rosso…» quello stesso biscione che verrà iscritto nello stemma dell’Anonima Lombarda fabbrica Automobili al quale l’Ingegner Nicola Romeo, acquisendola dall’italo-francese Darracq nel 1909, aggiungerà il suo nome.
Il Chinacci (1906-1976) era il quarto dei sette figli di Giuseppe Visconti di Modrone e di Carla Erba (erede dell’impero industriale chimico-farmaceutico Carlo Erba) e diventerà il celeberrimo regista che tutti sappiamo, la cui influenza, dichiarata o negata che sia, ha avuto peso inimitabile nella storia dello spettacolo del dopoguerra, estesa non solo sul Cinema (17 film, da Ossessione del 1943 a L’innocente del 1976, quest’ultimo, come il precedente Gruppo di famiglia in un interno, realizzato in precarie condizioni di salute a causa di un ictus) ma nel Teatro di prosa (40 spettacoli, da I parenti terribili di Cocteau del 1945 a Old Times di Pinter del 1973) e nell’Opera lirica (20 spettacoli, dalla Vestale di Spontini con la Callas del 1954 alla Manon Lescaut di Puccini a Spoleto del 1973), un’immensa fertile produzione sulla quale mai potrà scendere l’oblio.

I Visconti passavano parte delle loro vacanze a Cernobbio, nella sontuosa villa, chiamata Villa Grande, commissionata a fine Ottocento in stile cinquecentesco da Luigi Erba e Anna Brivio ma possedevano anche l’adiacente Villa Vecchia derivata da un ex-convento del XII secolo e trasformata in residenza ai primi dell’Ottocento. L’aveva ereditata Guido (1901-1942) il primogenito morto in guerra a El Alamein che aveva voluto lasciarla in eredità alla penultima Ida Pace, detta Nane, con la clausola, sempre rispettata, che anche gli altri fratelli potessero goderne: «Non dividetevi fra voi se non con ghirlande di fiori, unita la famiglia come la mamma l’avrebbe voluta».

Al padre Giuseppe si deve invece la fantasiosa realizzazione di un borgo neo-medioevale a Grazzano, vicino Piacenza, intorno al castello di famiglia. Il borgo imitava le antiche case contadine e le botteghe degli artigiani, con scuole per maniscalchi, falegnami e tessitrici che avrebbero fatto in seguito la fortuna del sito, a tutt’oggi suggestiva meta turistica. È proprio da Grazzano che parte la nostra storia, molti anni prima che il Chinacci diventasse Luchino Visconti di Modrone.

Siamo all’inizio degli anni Trenta. Una notte il giovane Luchino, ancora lontano dalle successive vocazioni (prima i cavalli da corsa, poi il cinema, dopo l’incontro del destino a Parigi con Jean Renoir, pronuba Coco Chanel), sveglia l’autista Marzorati e chiede di essere portato con urgenza a Milano. Non intende ragioni: l’ora tarda, la strada tortuosa, la nebbia che ai tempi rendeva tutto invisibile. Il Chinacci al volante, Marzorati al suo fianco, in piedi per vedere meglio la strada. L’auto esce di strada a una curva e, centra un pilone. Marzorati muore sul colpo, Visconti è illeso.
Tale il senso di colpa che il giovane decide di lasciare Milano e partire per un lungo viaggio di meditazione e conoscenza che lo porterà dalla Grecia all’Africa sahariana. Prima in Tunisia, poi in Algeria sull’altopiano del Tassili N’Ajjer, al confine libico, poi nel Massiccio dell’Hoggar e sulle vertiginose montagne dell’Assekrem dove Charles de Foucault, prima di venir ucciso dai predoni nel 1916, ha costruito il suo eremo. La figura di questo asceta, prima soldato, poi geografo, linguista e infine sacerdote, influenza a tal punto il giovane Luchino da fargli accarezzare l’idea di abbandonare il mondo e condividere la povertà dei seguaci di Foucault (che sarà fatto Beato nel 2005).

Non sarà così e Visconti diventerà l’artista che sappiamo, ma Marzorati non sarà mai dimenticato. Quando nel 1976 la sorella Ida Pace (da tutti chiamata Nane) metterà mano alle carte del regista, vi troverà la disposizione di un vitalizio mensile alla famiglia Marzorati, impegno morale che da allora sarà sostenuto dalla più piccola dei Visconti.
